Ombre e realtà

Nella scena finale del film The Truman Show, di Peter Weir (1998), quando l’impatto con il fondale di cartapesta rivela definitivamente la natura illusoria del mondo di Seahaven, assistiamo al dialogo tra Truman e il regista Christof, il quale rivela alla sua “creatura” che «non c’era niente di vero!»

«Non c’era niente di vero!». Eppure, per circa trent’anni, Truman è stato convinto di vivere in una incontrovertibile realtà, sia naturale (il sorgere e il calare del Sole, la Luna, la pioggia…), sia sociale (avere un lavoro, dei genitori, una moglie, un amico). Com’è potuto accadere? Come chiede un giornalista al regista durante un collegamento telefonico: «per quale motivo Truman non è mai riuscito a scoprire la vera natura del mondo in cui è vissuto finora?». Risposta di Christof: «Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta, è molto semplice!»
Nella risposta del regista troviamo sottintesa l’ipotesi gnoseologica di grandi filosofi del pensiero occidentale, da Platone a Schopenhauer, secondo la quale ciascuno di noi, fin dalla nascita, vive, senza saperlo, in un mondo illusorio, che è fondamentalmente il mondo che noi ci costruiamo nella mente basandoci sulle percezioni sensibili e sulle abitudini acquisite.
Nel celebre mito della caverna Platone paragona gli uomini a un gruppo di schiavi incatenati, fin da fanciulli, sul fondo di una caverna, in modo da non poter vedere che le ombre di statuette proiettate da un grande fuoco che sta alle loro spalle. Ovviamente costoro trascorrono la loro esistenza credendo che le ombre siano la realtà. Il mito prosegue immaginando che uno degli schiavi possa liberarsi, accorgendosi dapprima che la realtà delle ombre sono le statuette e, poi, una volta fuori dalla caverna, che la realtà delle statuette sono le cose artificiali e gli esseri naturali illuminati dal sole, di cui le statuette sono solo una copia.
Con le immagini del mito (raccontato nel Libro VII de La Repubblica) Platone allude, semplificando un po’ le cose, ad un dualismo gnoseologico tra la conoscenza sensibile o doxa (l’opinione della maggior parte degli uomini), mutevole e imperfetta, in quanto rispecchia le cose sensibili, mutevoli e imperfette, e una conoscenza razionale o epistème (la scienza), immutabile e perfetta, in quanto rispecchierebbe il mondo delle idee, immutabili e perfette.

Anche Schopenhauer esprime la sua idea della conoscenza con un’immagine, presentandoci il mondo fenomenico come coperto da ciò che nell’antica sapienza indiana è detto “velo di Maya”, facendo sì che esso, per i nostri sensi e per il nostro intelletto sia parvenza, illusione, sogno,ovvero non il mondo in sé, ma il mondo come nostra rappresentazione
Ma, sia per Platone che per Schopenhauer, per uscire dall’inganno di ciò che appare è necessario che qualcosa venga a scuoterci dall’esterno, per farci comprendere l’illusorietà del mondo in cui viviamo.
Ed è proprio quello che accade a Truman, dall’inizio del film, dopo aver trascorso i primi trent’anni come in un sogno: «Mosso dallo stupore per un evento casuale, di per sé irrilevante (come accade peraltro, nel mito platonico, al prigioniero che intraprende l’itinerario di fuoriuscita dalla caverna sospinto dalla meraviglia), Truman vuole sapere. Non può più accontentarsi delle ombre, per quanto rassicuranti, di Seahaven. Pretende la verità. Una volta che egli abbia presagito l’illusorietà del mondo in cui vive, nulla potrà più fermarlo. Per quanto rischiosa e incerta si presenti l’impresa, egli non può evitare di avventurarsi in mare aperto, per portare a compimento una ricerca di verità che è insieme ricerca di autenticità».  [Umberto Curi, Lo schermo del pensiero, Raffaello Cortina Editore, MI, 2000, pp. 143-144] 

Truman “sceglie” di varcare la soglia oscura (EXIT), ma non si tratta di uno scontato lieto fine hollywoodiano; infatti la scelta del regista di non farci vedere come sarà la vita del protagonista “fuori dalla caverna” lascia aperta la possibilità che egli, oltre ad incontrare Sylvia, possa incontrare un mondo praticamente identico a quello nel quale egli è vissuto per trent’anni, «con gli stessi inganni e le stesse ipocrisie» (come gli preannuncia il regista-demiurgo) e, per di più, senza la protezione rassicurante del suo “creatore” sulla tranquilla isoletta. Ma ciò che, dal punto di vista filosofico, ha guadagnato Truman, assieme ad una forse scomoda verità è l’autenticità, quell’autenticità, heideggerianamente piena di angoscia, che incontrano gli esseri umani quando, seguendo la voce della coscienza, decidono di mettersi in gioco, regolando i conti con il proprio “essere gettato”.

Le due pulsioni fondamentali che accompagnano il processo di emancipazione di Truman dal mondo delle ombre, il dubbio e l’amore, sono le stesse pulsioni che stanno alla base del più genuino atteggiamento filosofico. Il primo, rendendoci socraticamente consapevoli di “non sapere”, ci spinge a indagare per diventare meno dubbiosi; il secondo (nel film rappresentato dall’idea della donna amata sulle lontane isole Figi) è l’eros del Simposio platonico, che desidera qualcosa che non ha, ma di cui ha bisogno: non ha la bellezza e la desidera, in quanto essa è il bene che rende felici; non ha la sapienza, ma aspira a possederla, e in questo senso l’eros è “filosofo” (letteralmente: “amante della sapienza”). Questo tipo di eros, che in realtà anima Truman fin da bambino («voglio fare l’esploratore!»), è ciò che Freud chiama pulsione epistemofilica, ovvero la capacità degli umani di avere desiderio di imparare, consacrando una parte della loro libido agli oggetti del mondo con cui devono relazionarsi, apprendere e comprendere.


© Angelo Mascherpa

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